l1996
Dal Diario del Protagonista:
14 settembre 1951
Ai primi di giugno presi quel
posto. Disperatamente, fuggivo da un denso grumo di problemi che
poi finivo invariabilmente per ritrovarmi di nuovo di fronte, la
sera, quando appoggiavo la fronte al boiler per cercare sollievo.
Sono fatto così: porto in giro le spalle abbassate, con
ostinazione, freddezza per qualche mese. Poi, mi viene fatto
notare, reagisco improvvisamente. Accettai un posto di
scaricatore di caffè perché, tra le offerte di lavoro
disponibili era quella più selvaggia. Se già non mi seguite
più, leggete qualcos'altro. C'è una bibliografia in fondo alla
pagina.
Dissi addio al boiler, con un groppo in gola; rovistai per un bel
po' in cerca di indumenti pesanti nel baule, feci diverse cose
inutili aspettando che la coscienza della loro inutilità
divenisse insopportabile. Infine, mi diressi allo svincolo con un
qualcosa di stonato dentro: era come se nella mia testa ci
fossero due cortei sfilanti in direzioni opposte: uno era una
festa di studenti, l'altro, un funerale. Questo pensiero pazzesco
mi ha tormentato durante i primi mesi di lavoro sull'altipiano.
Mi pareva mostruoso che il mio inconscio fosse tanto oscuro e
sconosciuto da propormi davanti agli occhi, in un momento
qualsiasi, delle immagini così incongrue. Pensai all'ovvietà
disarmante di una tale constatazione. Non ne ricavai alcun
sollievo. Dapprima mi dissi di combatterlo. Poi, lo sconfissi nel
modo peggiore, cioè finendo per abituarmici. In seguito
successero delle cose. Adesso ho per le mani delle situazioni
talmente perturbanti e coinvolgenti che non ho proprio il tempo
per pensare a doppie processioni inverse. A volte, però, mi
capita ancora di rivedere le facce mute contorte dagli urli di
quelle visioni. Se questo succede, vado alla fontana a prendere
l'acqua, oppure a spostare l'erba secca dall'entrata del
magazzino. C'è un vento, qui, un vento teso e polveroso, che
accumula le sterpaglie contro ogni muro. Se si lasciano in giro
questi mucchietti per troppo tempo, poi cominciano a vedersi in
giro degli strani animali, che ho cominciato a odiare.
L'altipiano è vasto e giallo: ci sono pochissimi oggetti
naturali o artificiali che possano spezzare la scia del vento, e
così siamo dalla mattina alla sera pieni di polvere e fili di
paglia nei capelli. Il Trippa se li è tagliati a zero e ha
risolto il problema, e forse prima o poi farò anch'io così.
21 Settembre
Il Trippa parla poco.
Stamattina però, dopo il turno, aveva una strana agitazione
addosso, e forse per calmarsi un po' si è messo a parlare con
me. Già nel capanno degli attrezzi aveva cominciato a biascicare
qualcosa a proposito di finestre e balconi della sua città.
Benché non puzzasse di alcol, ne ho dedotto che fosse mezzo
ubriaco. Odio le cose lasciate a metà. Vi ho già detto degli
animaletti ? Dentro la taverna gli ho proposto una birra. Poi,
seduti, gli ho chiesto impietosamente come mai se ne fosse stato
zitto per settimane per poi di colpo venirsene fuori a parlare di
balconi. Il Trippa non ha colto il senso della domanda, o forse
in realtà era sobrio e mi ha disprezzato, perché la sua
risposta è stata semplicemente un proseguimento dei discorsi di
prima.
Nella sua città ci sono vie diritte piene di negozi, torri di
pietra rosa, marmi lisci, donne agitate piene di figli, e palazzi
massicci -diceva- con appartamenti per studenti. Lì lui stesso
aveva studiato chimica per due anni, prima di darsi al caffè
sull'altipiano. Oltre a rarefatti esami, ammazzava il tempo
suonando la tromba da solo sul balcone, e ogni tanto qualcuno gli
bestemmiava dal palazzo di fronte. A volte si riuniva in piazza
insieme ad altri 'buffoni', come li chiamava lui, una banda
goliardica, mi è parso di capire, che animava le feste di laurea
secondo un rituale antico e crudele: il neolaureato veniva
trascinato per le vie del centro dagli amici fuori corso, e
coperto di pomodori marci a ritmi di tarantelle, o gighe, o
marcette, non ricordo. Poi si passava la notte a urlare, un pò
fuori città, tra le balze di ulivi.. Guardando fuori, ho notato
che l'altipiano era più buio del solito. Ho pensato anche alla
sua piattezza oscena, per la prima volta, con chiarezza e orrore.
Ho chiesto al Trippa perché mai mi raccontasse quelle cose. Era
turbato: voleva spiegarmi una cosa strana, mi disse, ma aveva
paura che lo prendessi per pazzo. A quel punto ho capito che non
mi disprezzava e mi sono rilassato. Non ne era capace. Ormai
sicuro di dominare sia la situazione che la persona, ho cercato
di rassicurarlo, di calmarlo. Si è fidato (poveraccio!). Si è
appoggiato a una lunga sorsata. Mi ha spiegato che di quei
ricordi, sebbene fosse evidentissimo il fatto di averli vissuti,
non aveva più immagini. Non riusciva assolutamente a
visualizzarli mentalmente, neanche in parte: erano sparite le
immagini delle vie del centro, dei ritagli di cielo azzurro tra i
tetti neri, delle vecchie ferme sulle soglie dei pescivendoli a
guardare la processione, delle tarantelle, delle ragazze
sorridenti e dei loro vestiti misteriosi ed eccitanti, delle
facce rosse e gonfie dei 'buffoni', e infine dei famosi balconi e
finestre dei palazzi. Anni e anni di esperienze e avventure gli
erano sì rimaste nel profondo, ma inaccessibili, irreali. Come
dei files presenti fisicamente in memoria ma che per qualche
motivo inconoscibile non si riesce ad aprire. La cosa bizzarra
era che tutto ciò che riguardava l'università ma non la
processione, gli risultava nitido come sempre: le aule, le
panchine dei parchi, la mensa, la folla all'uscita delle lezioni,
e anche le stesse finestre e balconi dei palazzi dal di dentro,
viste da un appartamento qualsiasi. Il Trippa era agitato ma
sempre pronto a ristabilire il controllo; io, invece, sono
passato in due minuti dalla superiore rilassatezza alla
democratica curiosità, e poi alla confusione, allo smarrimento,
all'angoscia, al terrore gelido, quando mi sono reso conto che le
immagini delle processioni di Amedeo erano quelle stesse che
avevano turbato il mio cervello stanco e perplesso sullo svincolo
quella sera di giugno, e poi per giorni e giorni appena arrivato
sull'altipiano.
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Ormai pallido, ho bevuto nervosamente. Non ho saputo dire niente
al Trippa, che, povero sciocco, ha attribuito il mio pallore alle
sue parole.
3 Novembre
Ormai è chiaro: le persone che vengono sull'altipiano mescolano i loro ricordi in modo imprevedibile e agghiacciante. Dal giorno del primo colloquio col Trippa ho deciso di investigare anche sugli altri colleghi, carpendo informazioni spezzettate tra una birra e l'altra, o sotto il porticato ad aspettare che la pioggia si diradi. Non sempre sono stato abile o fortunato. Molti, anzi, li ho trovati sulle difensive; si sono chiusi a riccio non appena le mie domande si sono fatte un po' particolari. Comunque ho potuto appurare senz'ombra di dubbio che tutte le persone quassù, in un modo o nell'altro, hanno perso ritagli di immagini mentali, o ne hanno acquistati di altri, o, più spesso, entrambe le cose. Molto varie sono le sorti, come è facile immaginarsi: Gigi il maremmano ha scordato la forma degli gnocchi fritti che si fanno dalle sue parti, mentre Gabriele non ricorda più il volto dei propri parenti di sangue, compresi madre e padre. Il più scosso mi è sembrato Gigi. Sono quasi sicuro, poi, che certi 'strani sogni ad occhi aperti a proposito di ingranaggi', di cui mi ha parlato Geronimo una sera mentre era ubriaco e in vena di confidenze, non sono altro che pezzi di ricordo di Baldassarre Bestia, il magazziniere, che so essere stato meccanico prima di venire qua, e che ogni tanto borbotta sillabe confuse sulla soglia con gli occhi sgranati all'orizzonte. La sigaretta gli si spegne tra le mani. Ancora non ho capito, invece, a chi appartiene l'immagine del funerale.
11 Novembre
In questi giorni è cambiato un
po' tutto: ai giorni giallo-ocra e polverosi sono succeduti
silenzi bui pieni di pioggia fine e fastidiosa; al mio slancio
investigativo che in qualche misura, adesso me ne accorgo, era
anche un bisogno di dialogo, di apertura verso gli altri, è
seguita una specie di ritirata del cuore: impiego le pause tra i
turni a tracciare linee curve col polpastrello sulla condensa dei
vetri, mi cullo tra pensieri ossessivi, trascuro l'igiene
personale e frequento l'alcol con più naturalezza e spavalderia.
La paura che mi consuma è il terrore di aver perso delle
immagini e di non essermene avveduto. La mattina, ancora nel
letto, appena acquisto coscienza mi costringo a fare la prova:
visualizzo una giornata di sole e paura a Roma, una partita di
calcio alla televisione vista con gli amici, una lunga notte in
bianco in ospedale. La sera, fino alla mezzanotte, metto al
sicuro le immagini prendendo appunti su un quadernetto. Mi va
sempre bene, per ora, ma questo non vuol dire niente: è ovvio
che nella memoria esistono migliaia e migliaia di immagini in
potenza che potrei cercare di richiamare, e alcune di esse forse
sono sparite; ma non potrò saperlo finché non avrò cercato di
richiamare proprio quelle che sono sparite. Non c'è modo di
liberarmi di questa schiavitù: ogni momento è buono per 'fare
la prova', e il sollievo per ogni ricordo in più che è in salvo
(ma per quanto ?) sparisce di fronte all'angoscia di poter un
giorno non ritrovare più la piantina di una casa di Camogli, o
la sera del sedici dicembre 1946, o altre immagini simili che mi
stanno a cuore più della vita stessa. Invano mi dico che
l'esperienza del dimenticare è umana, comune e indolore perché
generale; questo, infatti, non è dimenticare. Non ha il ritmo,
la gradualità, la necessità vitale del dimenticare. Non è una
selezione. L'oblio dell'altipiano è un furto ingiustificato e
gratuito che non obbedisce a nessuna regola: né al buon senso,
né all'abitudine, né al tempo.
Javier, il colombiano, ha perso l'immagine mentale della propria
faccia, ne sono sicuro. E' troppo atterrito per parlarne con
alcuno, ma provate a spiarlo mentre coglie ogni occasione per
guardarsi, tremando, allo specchio, già sicuro ormai di non
riconoscersi.
12 novembre
Controllare i propri ricordi
per vedere se ci sono tutti è un impresa folle, è chiaro. Ma
non è la vita stessa un'impresa folle ? E pur tuttavia non
continua la stragrande maggioranza degli uomini a vivere senza
suicidarsi ? Anch'io continuo, ormai anche durante il lavoro (con
conseguenze spiacevoli), ma con più rassegnazione che paura. Ho
buttato il quadernetto. Vedendolo tra la paglia, ne ho capito la
ridicola inadeguatezza. Inoltre, comincio ad essere assillato
adesso da problemi nuovi, più distaccati e speculativi (se solo
potessi pensare di meno e vivere di più !): perché solo adesso
scopro di essere affezionato ai miei ricordi ? Perché sono così
tanti ? Perché ognuno di noi è così vulnerabile ? Perché non
se ne parla mai, qui sull'altipiano ? Quella che all'inizio mi
sembrava una piccola folla solitaria di asociali come me, è, in
realtà, un gruppo di persone che si sono radunate qui, si
direbbe, per affrontare un'inquietudine singolare, e che tuttavia
decidono di ignorare proprio quel problema, l'unico veramente
serio, come se ignorarlo lo rendesse meno reale. A questo punto
tanto valeva restare in città, visto che le dinamiche sono le
stesse
così umane
. Nella lontananza, nella
solitudine, nell'ignoto e nell'inedito, ne deduco, si
ripresentano tali e quali i meccanismi del consueto, del
consorzio umano, dell'abitudine e del prevedibile.
Attraversare la speculazione per raggiungere la realtà. Non che
sia la via. E' la mia via però.
15 novembre
Oggi è successa una cosa pazzesca: mi sono svegliato, un po' infreddolito, e come sempre l'abitudine mi ha spinto a sondare nella memoria. In un angolo insolito ho trovato degli strani impasti di farina gialla o cosa simile, irregolari e rugosi, che non sapevo proprio dove collocare. Per un po' sono rimasto interdetto. Poi ho afferrato l'atroce verità: erano gli gnocchi fritti persi da Gigi il maremmano. Dopo aver valutato a lungo pro e contro ho deciso di dirglielo: non si può più andare avanti così. Mi sono diretto al reparto C e ho trovato Gigi seduto su un mucchio di sacchi di chicchi di caffè grezzo ad asciugarsi il sudore. E' difficile parlare con lui: sorvola continuamente sugli argomenti seri, e comunque non riesce a concentrarsi per più di tre minuti sulla stessa cosa. Con sorpresa, però, ho scoperto che dopo un po' che ci parli insieme, si rilassa, diventa più serio, comincia ad ascoltarti. Gli ho comunicato in modo essenziale i fatti nudi e crudi: le mie scoperte, i timori, le assurdità. Ho tenuto per ultimo il particolare decisivo degli gnocchi fritti. E' stato a quel punto che Gigi si è illuminato: la mia descrizione gli ha restituito per brevi istanti, mentre parlavo, un simulacro verbale delle immagini che aveva perso. Non è proprio il ricordo, ma una sua ombra portata, goduta da lontano, e l'ho visto sorridere.
18 Novembre
Raccontare, scambiarsi le immagini, descrivere, narrare con lunghi giri di frase: abbiamo scoperto questa via d'uscita, io e Gigi, e pian piano stiamo coinvolgendo tutti gli altri. Ci si ritrova dopo le docce attorno a un tavolo pieno di alcol e si butta fuori tutte queste accozzaglie ingombranti di ricordi altrui che ci prudono dentro. E' come amare una donna facendosi raccontare i suoi baci da un altro, ma un amante fa anche queste cose. Ci siamo resi conto che questo metodo riesce a darci qualcosa di paurosamente simile alla felicità, quella vera, anche se non per delega. E' misterioso, ma succede. Un mio tentativo di spiegazione c'è, ed è questo: nel meccanismo della circolazione verbale si recuperano, per via di suggestione e di ritualità, quell'energia e quella sensazione di autenticità che erano andate perse assieme alle immagini. Chi ha perso un volto, un prato, un certo albero magico, l'ha perso per sempre, ma può riacquistarlo, come metaricordo, per un attimo bruciante, seduto al tavolo massiccio durante le nostre serate, attraverso le parole di un collega. La componente di emozione passata andata persa viene reintegrata da un'emozione presente. Certo, quasi tutto, troppo, dipende da fattori che, in quanto legati alla contingenza del presente, sembrano e sono crudeli: la fiducia, le capacità personali di narrazione e di ascolto, lo stato d'animo, l'insostenibile durezza della realtà. Ma è più facile accettare questa crudeltà che quella del silenzio ossessivo. E poi ho detto quasi tutto. Cominciamo a comportarci in maniera diversa l'uno con l'altro, ormai: sappiamo che i portatori dei nostri ricordi sono preziosi, e cerchiamo di trattarli bene (ognuno, naturalmente, si rende conto del sostrato di tristezza e solitudine che ciò sottintende). Un sistema di codici sotterranei si sta creando, fitto fitto e dialettale. Inoltre, attraverso le parole altrui, cominciamo ad avere ricordi di secondo grado, come quando ci si ricorda di aver avuto due anni perché si è vista una fotografia che ci ritrae a quell'età.
16 Dicembre
E' passato un mese, durante il quale non ho scritto niente per il semplice motivo che non ne avevo voglia, una cosa che non mi succedeva da tempo. Se ho ripreso in mano la penna è perché un certo senso di disciplina mi dice che è importante prendere nota di alcuni sviluppi. Sta succedendo infatti quello che, a ben pensarci, si doveva intuire fin da subito: la fossa comune dei ricordi, essendo progressiva oltre che continua, sta raggiungendo velocemente il punto in cui non resteranno più ricordi individuali, ma solo una massa enorme di materiale mnemonico collettivo, densissima e dai bordi frastagliati. Già ora comincia a risultarci bizzarra l'idea stessa di ricordo individuale. Inoltre, come temevo, sta cominciando a non avvertirsi più la distinzione tra il ricordo e la sua esposizione orale. Cosicché mentre una volta, mi pare (ma forse mi sbaglio), ci sembrava logico considerare i ricordi come personali, incomunicabili, mentali, vaghi nella forma ma precisi nella sostanza, ora li concepiamo solo come impersonali, collettivi, orali, precisissimi nella forma e quasi inconsistenti nella sostanza. Non sarebbe troppo lontano dalla verità affermare che tutti si ricordano tutto di tutti, e allo stesso tempo nessuno ha più un passato. Dev'essere così. Ma non ricordo esattamente, dovrei chiedere agli altri.
(Progetto di proseguimento
trama:....., in cui la trasmissione orale sostituisce
gradualmente il meccanismo stesso del ricordo. I ricordi
diventano leggende, miti, simboli, e la scrittura scompare,
essendo diventata l'oralità troppo importante.)
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